top of page
Cerca
Immagine del redattoreSara Piccolo Paci

La nuova Galleria del Costume di Pitti. Un'occasione mancata.


Ma serve davvero un Museo della Moda?

La Galleria della Moda e del Costume di Pitti/Uffizi riapre, lungamente attesa – ben quattro anni di intervallo – si vabbè c’è stato il Covid, ma le congiunture stellari forse hanno necessitato di un allineamento planetario perché potessero riaprire i battenti di un’esposizione che rende conto di uno dei motori economici più importanti del mondo – e no, non è il calcio.


Il percorso proposto è di tipo cronologico, e in un articolo online di Domenico Casoria (1) si sottolinea come questo sia un approccio "nuovo" rispetto a quelli di tipo tematico in uso anche in altri contesti.


A dirla tutta, non si può effettivamente affermare che si tratti di un modo (sic!) molto nuovo, visto che fin dagli albori di quella che veniva chiamata “storia del costume” si sono spesso disposti gli oggetti della moda in ordine cronologico.


Anche nei primi decenni della stessa Galleria del Costume l’esposizione era di questo tipo: ricordo, ancora negli anni ’90, le prime sale con gli abiti ‘alla francese’ del Settecento, seguite dal primo Ottocento, dal pieno Ottocento, dal Novecento... praticamente identiche ad oggi.

Sono autrice di un manuale di storia della moda e dell’abbigliamento e l’approccio cronologico è stato certamente fondamentale per porre in evidenza le relazioni tra oggetti, idee, luoghi e tempi. Tuttavia, il concetto di ‘moda’ è talmente ampio e complesso che non sono sicura che una visione cronologica possa ancora essere l’unica efficace, e certo non in un'esposizione di qualità quale ci si aspetta da Pitti.

È triste che ancora si debba parlare della moda come di un ‘fenomeno’, come qualcosa che sia in ‘conflitto’ con l’arte, ancora dovere spiegare che la moda pervade la vita di tutti noi e come sia una realtà che ha moltissimi livelli, stratificazioni, interdipendenze, ed è, a tutti gli effetti, uno specchio efficace della realtà – di ieri e di oggi - analogica e virtuale.

 

Certo, gli abiti esposti sono di una qualità straordinaria.

Se fossi una turista qualsiasi attraverserei la mostra ed in ogni sala direi: “oh che bello!”  

Se questo era il punto che gli espositori volevano raggiungere, l'hanno raggiunto.

Però come esperta di moda, di costume e di abbigliamento - e sono tre cose diverse – e come operatore di cultura, mi aspettavo decisamente qualcosa di più.

Avrei voluto che fosse un'esposizione nella quale poter apprezzare i diversi livelli lettura - dai molteplici significati antropologici, sociali, politici e culturali - che ormai quasi cent’anni di studi sull'abbigliamento hanno messo in luce. Invece, ci troviamo davanti ad un'esposizione di pezzi bellissimi che però sono appunto soltanto questo, ovvero dei “pezzi” di una storia molto più vasta, molto più ampia, molto più interessante, molto più coinvolgente e di cui facciamo ancora parte.


Così, invece, vediamo tutti abiti bellissimi, anche se già molto conosciuti. Non ce n’è uno che non sia già stato visto in mostre precedenti, mentre manca completamente lo studio dell'abito di per sé, la concettualizzazione dell'abito. Sono cioè dei semplici oggetti di altissima qualità e fattura, di cui però al pubblico non viene comunicato niente se non l’aspetto puramente estetico, quello che mi fa dire “wow”, ma di cui non ricorderò niente una volta uscita da lì.



Una concezione didascalica, poco didattica, molto estetica, poco visionaria, della storia dell'abbigliamento, con una visuale prevalentemente solo occidentale italiana, in pratica neppure europea, senza nessun elemento di concettualizzazione.


Pochissime didascalie esplicative, molto semplici e limitate ad una spiegazione sui generis, sostanzialmente relative alla sola estetica, del periodo storico di riferimento.

 

Se questo è il fine dell'arte e delle mostre di cultura, allora, come dicevo, l’obiettivo è stato raggiunto. Ma io non credo che un'esposizione fatta da una istituzione di eccellenza come è Pitti si debba limitare a far fare “wow" al visitatore occasionale.

Deve poter essere anche qualcosa di cui parlare, che faccia riflettere.

 

È certo difficile concettualizzare una esposizione sulla moda tout court, perché è molto complesso renderne le sfaccettature in modo non banale. Ed è probabilmente anche una delle ragioni di fondo per la quale parlare di ‘moda’ è ancora un tema ostico per politici, accademici, giornalisti e storici, ed è difficile  ‘digerire’ la necessità di una esposizione che renda conto di tutti i valori che la moda rappresenta, incluso l’immaginario che le sta dentro e la rilevante parte economica che ci sta dietro.

Paradossalmente, la moda è sempre stata “un affare di stato”, ed è triste vedere come ancora adesso si comprenda l’importanza di altri ‘fenomeni’ analoghi – sport, cinema, entertainment, tecnologia, ecc.- e si fatichi a vedere quanto anche la moda abbia un valore totale – ed ormai, globale - che va oltre la ‘frivolezza’ e i ‘localismi’ cui viene spesso associata.

 

Invece, in questo caso si è voluto evitare praticamente ogni elemento che possa essere in qualche maniera controverso, ogni cosa che parli dell'abito nei suoi aspetti di relazione con le dinamiche del potere, della politica, dell'economia, del genere, della religione, della produzione di massa e della produzione di lusso, del concetto di lusso stesso, che è più volte evocato nelle varie sale, con contrapposizioni a dipinti di altissima qualità ma la cui relazione non viene evidenziata, spiegata, messa in luce.

Manca, ad esempio, ogni aspetto relativo alla produzione sartoriale, alla storia del tessuto, alla conservazione e tutela di oggetti così complessi come abiti e tessuti, alle infinite possibilità di parlare di un abito.


Sarebbe bastata una sala in cui “esplorare” un abito, analizzandolo da diversi punti di vista – magari anche con l’aiuto di una visione ‘digitale’, "espandendo" l’abito nei suoi diversi aspetti in una sorta di multi-testo - facendo vedere come può essere un insieme di molteplici letture, come in effetti ormai si è dimostrata essere la metodologia di studi che concerne l'abbigliamento.

Quindi una bellissima esposizione, ma, a mio parere, un obiettivo decisamente mancato.


  1. A cosa serve davvero un museo della Moda (che in Italia non c’è)

    Lineapelle Magazine, di Domenico Casoria, sett.2024

     

182 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Vittorie e Giudizi

Comments


bottom of page