A volte ci si trova di fronte a cose di cui non si può fare a meno di parlare.
Il ricamo, arte antica e spesso associata alla tradizione, è la tecnica espressiva scelta da Daniele Davitti, ed è lui che voglio farvi conoscere oggi.
Immaginate un mondo dove gli aghi danzano su tele lintee un pò ruvide, stropicciate dal tempo e dalle mani, e i fili tessono storie intricate e oniriche.
Benvenuti nell'universo artistico di Daniele.
Opus Tacitum è il titolo dell'esposizione che si è tenuta fino a venerdì scorso presso la "Galleria Immaginaria" di via Guelfa 22/r, a Firenze.
Titolo quantomeno azzeccato, visto che il ricamo è un'arte che richiede attenzione e silenzio, non solo e non tanto nel momento dell'esecuzione, quanto nella fase in cui la mente organizza i pensieri e si avvia a stendere il filo sulla tela.
Momento magico, quello, in cui la mano si appresta a disporre fili, colori e texture seguendo emozioni, sentimenti e riflessioni che fino ad un momento prima sembravano sfuggire tra le dita.
Ed invece sono proprio le dita che creano la magia.
Daniele Davitti è un mio antico studente. L'ho visto, giovanissimo, affrontare timori e curiosità, con pari energia. Lo vedo ora, con quella patina in più che ti viene dall'aver vissuto intensamente, prendere quegli stessi timori e curiosità e farne materia viva.
Le sue tele, 'bassorilievi morbidi' come le definisce, sembrano venire da epoche lontane. Con materiali 'poveri' e quasi casuali, descrivono paesaggi visionari, dove, dopo un primo sguardo d'insieme, si sente il bisogno di guardare da vicino... e ti fanno 'guardare dentro'.
Le sue opere sono oniriche come certi bozzetti di Fellini, pur monocrome esprimono il colore quanto certi bozzetti di Luzzati, fili e applicazioni si sfumano in disegni acquarellati simili a quelli dei maestri giapponesi dell'Ukiyo-e, toccano le corde dell'anima quanto le pale d'altare a fondo oro del medioevo più spirituale.
Per tanti secoli le arti di filo hanno percorso binari duplici: da un lato raggiungendo vertici d'arte nelle opere dei maestri medievali e rinascimentali del ricamo, dall'altro sottostimati in una dimensione domestica che si voleva poco creativa e obsoleta.
Più studio queste tecniche più mi rendo conto che invece non sono mai state, veramente, arti 'silenti': anzi, nel raccoglimento che il ricamo e le arti di filo richiedono si sono espresse intere generazioni di creatività e di identità.
Le arti dell'ago sono state spesso vere risorse per le famiglie - nei corredi, nelle abilità delle mani che trovavano lavoro come cucitrici, sarte, ricamatrici - ma anche importanti segni di identità e di memoria - le arti di filo sono parte integrante delle narrative e della cultura materiale legata ai fenomeni migratori di tutto il mondo.
Ricami, uncinetto, maglia e merletti si sono caricati, per generazioni, di forti valori simbolici ed emotivi.
Non è un caso che esse stiano tornando in luce in questi nostri tempi frenetici e stressanti: il tempo del ricamo è un tempo che ti dà, non toglie, anche quando è fatto di notte perchè durante il giorno siamo tutti troppo 'occupati'.
Questo è, probabilmente, quello che ho percepito nell'opera di Daniele Davitti, che nonostante l'ancor giovane età ha un curriculum di tutto rispetto, sia nel mondo dell'insegnamento, in quello delle arti grafiche ed anche in quello dell'arte applicata, come questa, tanto che è stato tra i 50 artisti selezionati per la Biennale Contextile di Guimaràes, in Portogallo.
Ogni filo ha la sua storia da raccontare, e i fili di Daniele sono voci potenti che echeggiano nel tempo.
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